sabato 7 gennaio 2012

Ispirazione e soggetto!


Ecco che nell’ultimo post torno a dire ciò che ho detto nel primo, ovvero che perseguire la tecnica allontana dal contenuto a tal punto che la tecnica stessa diventa il soggetto. Ma quindi cos’è il soggetto e cos’è che ci spinge a fotografare proprio quell’istante quella determinata cosa? Ovviamente da questo ragionamento è esclusa tutta la fotografia commerciale, quella realizzata su commissione… i matrimoni, le pubblicità ecc. che pur avendo spesso accessi artistici, hanno comunque un soggetto predeterminato da un contratto giustappunto commerciale. Parlo invece della fotografia amatoriale o artistica, quella spontanea che nasce dalla volontà personale di trasferire la realtà in un fotogramma. Ho conosciuto molti fotografi e fotoamatori, e devo dire che difficilmente sono riuscito ad individuare i motivi che li spingevano e tuttora in molti casi spingono, a scegliere il soggetto delle loro immagini.
Sono identificabili varie tipologie ricorrenti:
  •  Gli archivisti: la categoria forse più ricorrente, fotografano tutto. Io ad esempio spesso non fotografo i monumenti o certe emergenze note a meno che non veda qualcosa che mi colpisce e diverso da quello che trovo sulla guida turistica, sennò compro la guida. Forse il motivo è dimostrare di esserci stati… a volte ho avuto la sensazione che sia per rimandare le proprie emozioni: il viaggio è faticoso, segnato da tappe forzate, soggetto a ritmi da miniera… allora si fotografa tutto per avere poi a casa il tempo di godersi le cose, forse.
  • Gli insoddisfatti (in parte anch’io) quasi tutte le foto rimangono nel cassetto, o prima anche sulla pellicola, ora su HD, c’è sempre qualcosa che non va. Non è detto che sia nella fotografia… può anche darsi che sia la realtà che ha sempre qualcosa che ci da fastidio, sia estetico che psicologico. Personalmente mi infastidisce fare le fotografie dove si vedono cassonetti, cavi, macchine… quasi tutto ciò che è nel nostro quotidiano. Alla lunga non si fotografa più quasi nulla 
  • La conseguenza al 2 sono quelli che girano sempre con la fotocamera e non fotografano proprio più niente, pochissime immagini all’anno. In fondo credo sia un atteggiamento coerente… se vogliamo considerare la fotografia una forma d’arte, occorre che esista l’ispirazione. Se manca, l’immagine prodotta probabilmente sarà un inutile esercizio di stile. Rimane l’acquisto compulsivo! Chi non scatta proprio più ha spesso al collo una macchina equiparabile ad un gioiello
  • Al contrario esistono gli entusiasti, che spesso sono anche esibizionisti. L’ispirazione è vedere se stessi nell’atto creativo fotografando la verza al mercato, che potrebbero comprare e fotografare comodamente a casa, o anche no, tanto della foto di una verza da dopo Weston, non gli ne frega una mazza a nessuno. Questo particolare fotografo si riconosce perché è estraneo alla realtà che lo circonda, è li in una dimensione parallela dalla quale ci esplora, artista noncurante delle persone intento a trasmettere ai posteri quell’attimo irripetibile nella vita di una verzura soggetta ad inevitabile decadimento o ingestione.


In genere, la categoria che produce le cose migliori è quella formata dagli “emotivi” raggruppati come in una cerchia dantesca in tristi e felici. Chi è triste trae dalla malinconia un enorme patrimonio di ispirazione che ben si fonde con la realtà. I felici (che spesso però sono tristi camuffati) capaci di percepire la tristezza, la evitano creando immagini serene e bilanciate che travalicano il senso principale (la vista) trasmettendo un’emozione complessiva.

Quest’ultimo è un po’ il punto al qual spesso mi piacerebbe saper arrivare. Ciò che spesso non si coglie se si fa parte degli “insoddisfatti” è che il problema non è tecnico ma emotivo, e anche gli archivisti soffrono del difetto di memoria della fotografia, ovvero di riproporre un’immagine, ma al momento dello scatto tutti i nostri sensi erano coinvolti. Il nostro stato d’animo, quella particolare atmosfera che ci ha fatto pensare “ora faccio una foto” era il frutto di una concomitanza di input visivi, olfattivi, suoni e rumori, caldo freddo vento, fame sete, tutto concentrato in un millesimo di secondo in cui decidiamo di premere il pulsante di scatto. Credo che il segreto sia qui da qualche parte. Qualcuno ci riesce, vedendo un’immagine di evocano odori, sapori e sensazioni che vanno al di là dell’immagine. Non vi è capitato di sapere che proprio lì dovevate fare una foto perché c’era qualcosa di straordinario, ma non sapere esattamente cosa fotografare, non capire quale fosse il soggetto di quell’emozione che stavate provando. Poi scattate e riguardando la foto vi sembra un altro posto… non c’è niente di quello che ricordate. Non so di preciso come sia possibile, credo sia la “composizione” a rendere il soggetto così evidente a farlo immaginare oltre il visibile. Certo ci vuole tecnica, mezzi, ma soprattutto sensibilità, solo che purtroppo, e lo dico anche per me, la tecnica si impara, i mezzi si comprano ma la sensibilità…. Forse è in quest’inezia la differenza tra un ottimo artigiano e un artista, qualunque sia la forma espressiva scelta.

mercoledì 4 gennaio 2012

Strada o Accademia?


A volte mi sorprendo a parlare di cose che tecnicamente ho dimenticato. Ma se ne parlo! Infatti il dubbio che mi assale è questo: le ho veramente dimenticate o le applico inconsciamente? Fanno parte di un bagaglio tecnico naturale ormai acquisito o la tecnologia acquisita mi permette di ignorare tutto, potendo in postproduzione rifare l’immagine come mi pare? L’ ulteriore è questo: ma se applico una tecnica in post produzione, per ottenere il risultato (in termini compositivi e di illuminazione) significa che non li dimenticati ma solo rimandati, oppure è un modo di salvarsi in angolo quando non abbiamo il risultato?
Mi scopro a dare “buoni” consigli che io stesso non seguo e ad essere condizionato da cose che razionalmente rigetto come i compitini mensili delle riviste o dei corsi di fotografia.
L‘esito e soluzione di tutto questo pensare è una ulteriore domanda: ma la fotografia è per me un fine o un mezzo? Sembra retorico, ma l’aspetto in realtà è pragmatico. Il fine nei miei intenti sarebbe l’archivio e la comunicazione delle mie emozioni riguardo a ciò che mi circonda, utilizzando per renderlo tutto quello che ho a disposizione; ciò che prima facevo in camera oscura e ora al PC fa parte di un processo creativo complesso che utilizza, ormai, diversi mezzi dalla fotocamera al video alla carta alle presentazioni multimediali. E allora perché dico “sarebbe”? perché mi accorgo che a volte il tentativo è quello di ricreare un’immagine già vista, già provata e già a suo tempo scartata perchè non mia, ma frutto di un’educazione visiva e tecnica che inevitabilmente mi porta a spersonalizzarmi per individuare “le Geometrie”, le “cornici”, a scattare sempre in orizzontale perché così è il monitor e ancor prima lo era la tv; a non fare più foto in bianco e nero, perché col digitale mi sembra un falso, un’elaborazione troppo pesante, cosa che invece non è se allo scatto pensiamo già in Bianco e Nero, concedendoci il lusso di togliere alla narrazione ogni forma di distrazione. In sunto, l’immagine prodotta è il fine stesso di tutta l’operazione!
Qual è il problema a questo punto? Che anche chi guarda le immagini gode del mio stesso tipo di educazione e apprezza una serie di parametri che gli garantiscono una certezza estetica gratificante e al tempo stesso riconoscibili è facilmente tollerabile, senza la necessità di intervenire con pericolose interpretazioni. Perché fotografare un banale aspetto del quotidiano in bianco e nero, non serve da desktop, non mi rilassa, ma anche “non lo capisco” perché non è mio, ma è il punto di vista del fotografo che vattelappesca che emozione avrà raccolto da quel banale momento quotidiano.
Quindi la media delle immagini prodotte è ruffiana? Credo di si. Magari non volontariamente ma convergendo verso l’omologazione si ottengono molti più consensi e relative gratificazioni, si vincono i concorsi, si  è pubblicati, si collezionano i “mi piace” sul social network, ma a noi “ci piace?”. Siamo gratificati dal fatto che il nostro fine, al limite coincida con il mezzo tecnico?
Questo comporta che chi è brutto non deve essere fotografato, se non per scherno o denuncia; se non sono bello non ho diritto ad avere un ritratto? Potranno i posteri sopportare che ho il doppio mento, i capelli bianchi e che magari sono pure invecchiato? Penso anche che alcuni angoli cittadini abbiano il diritto di essere tramandati anche se non c’è niente in loro di particolarmente eccitanti, perché ciò che oggi è banale tra trent’anni sarà quasi storia e magari qualcuno si commuoverà vedendo la finestra di casa sua con i panni stessi in una via senza particolari connotazioni oltre a quella di esistere.
Di contro, mi trovo spesso a guardare le fotografie si Facebook di gente che non conosco, ma non per le persone, ma per il contesto, cerco di capire chi sono dai mobile che appaiono sullo sfondo, dai libri nella libreria, dai vestiti… è un grande patrimonio che si sta riversando in rete, purtroppo senza qualità tecnica, spesso figlio di cellulari, pieno di errori, ma con la dignità di una memoria che non può essere collocata in un’immagine costruita o accademica. In sintesi, mi viene il dubbio che le foto “dotte” rimangano una cosa settaria e chiusa al mondo dei fotografi e dei giudici dei concorsi manieristi, mentre, un domani, verrà considerata fotografia quella fatta col cellulare e postata sul social, perché cruda e reale.