Oggi, domenica, ordinando in casa ho sfogliato alcuni numeri di Photo dell' 86. erano i tempi dell'apice della notorietà delle Top Models, quelle che non sono passate, ma che hanno segnato un momento del nostro costume e ahimè, l'inizio di un trend culturale volto alla massima espressione esteriore... vali se sei bello. Ma la cosa che mi ha colpito, è che tutto si svolgeva prima del digitale. Queste donne, bellissime indubbiamente, anche in fotografia sembravano vere! un lividino sulla coscia della Herzigova, la ricrescita sotto le ascelle della Christensen, la pelle che sembra pelle, le labbra normali (e qui non c'entra photoshop). Non che questa cosa abbia suscitato in me particolari emozioni, all'inizio non capivo cosa c'era di strano ed ero confuso, poi ho visto le "imperfezioni". Che stranezza! ti viene da pensare che incontrando una di loro per strada quasi quasi la riconosceresti... forse ora no, magari ora anche le loro labbra sembreranno grotteschi canotti, gli zigomi saranno sopra le tempie, i loro volti scelti a catalogo sembreranno tutti uguali come quelli di tante signore più o meno attempate che frequentano lo show business. Insomma è vero che potrebbero essere considerate il punto di partenza di una tendenza culturale dove il fuori conta più del dentro, ma è anche vero che almeno erano quelle che vedevi, vere, materiche!
Ora molti portano avanti lo stesso alto ideale del raggiungimento della assoluta bellezza esteriore e barando! E' anche probabile che poi ci credano in pochi, la cosa che mi colpisce di più è che ci credano loro.
Questo sarebbe da tenere presente quando affronteremo le tematiche legate al fotoritocco. Tutto quello che attiene la regolazione delle luci, dei contrasti dei toni, della morbidezza o nitidezza delle immagini, credo sia eticamente ammissibile... si faceva i camera oscura e serve a minimizzare il difetto proprio del "mezzo" fotografia! anche levare qualche imperfezione ... un brufolo, una schiarita alle venuzze negli occhi... in fondo oggi ci sono domani no! se c'erano il giorno della foto alla fine è un fatto di sfortuna!
Però sarebbe poco etico cambiare lineamenti dimagrire o aumentare una taglia in modo localizzato, cambiare il taglio degli occhi, allungare le gambe e accorciare il naso, insomma ciò che fa di una persona sostanzialmente un'altro!
Mi capita di fare post produzione per altri, e le richieste sono sostanzialmente di questo calibro.
Rimane un ultimo settore di attività che è la post produzione Fantasy, dove si modifica completamente la scena, i fondali, si effettua il make up digitale, spesso con aggiunta di modificazioni ed alterazioni orientate prevalentemente al Cosplay con soggetti di provenienza Anime o Manga. Qua però si parla di un atto creativo completo che poco ha a che fare con la fotografia, la quale entra in un processo che va dal trucco, all'abito, e anche all'interpretazione che il soggetto da del suo personaggio
domenica 27 novembre 2011
mercoledì 16 novembre 2011
6 - «Tutto quello che abbiamo fatto, Kertész l'ha fatto prima» (HCB)
Per interrompere la monotonia della tecnica vorrei accennare
ad un autore, sfogliando le immagini del quale, ci accorgiamo che ciò che Henri
Cartier Bresson dice (vedi titolo del post) è vero! Ritroviamo fotografie,
stili, inquadrature, ed interpretazioni che rivediamo ogni giorno.
A me (lontano dall’avere la cultura e la sensibilità per
essere un critico) ha affascinato la ricerca della composizione, dei grafismi,
la capacità di stupire e di emozionare senza l’aiuto del colore, dell’immagine
gridata. Si data la nascita della fotografia moderna con il suo scatto “Chez
Mondrian (1926)”,
che può sembrare oggi, dove tutto appare “contemporaneamente”, una semplice foto di interni, ma che rapportata con il suo contesto cronologico appare straordinariamente avanti, e stupisce come un’architettura di Le Corbusier, immagine di una comune abitazione degli anni 70 della periferia italiana, quando la si vede rapportata ad una automobile, a lei coeva.
L’immagine che però mi ha toccato di più, e della quale non conosco il parere ufficiale della critica, è “Melancholy tulip” del 1939, un fiore, simbolo della primavera, della vita, della rinascita dopo l’inverno è ripreso in “agonia”, ancora integro ma morente in un’immagine distorta e surreale, come molte dopo ne verranno, ma dopo!
Consiglio di scorrere le immagini di questo straordinario autore prima di intraprendere un qualsiasi progetto fotografico, perché è molto probabile che quello che abbiamo intenzione di fare Kertesz l’abbia già fatto prima!
venerdì 11 novembre 2011
5- ...Ma che diaframma hai usato?
Una domanda che mi ossessiona da mo’! cosa pensate si possa
rispondere? dipende da chi ve lo chiede: si può non rispondere facendo l’espressione
misteriosa di quello che la sa lunga, o dire un “non ricordo” facendo finta di
mentire. Si può anche dire: “quello che ci voleva”, oppure F8, a meno che la
persona non possa verificare i metadati e scoprire ahimè che invece mentite perché
avete usato F11. Qualcuno vi dirà: “io avrei aperto un po’ di più”, altri un po’
di meno… sono quelli che da sempre comprano tutte le riviste, e si esercitano
sui temi del mese: “un controluce diverso”… “i riflessi” … “attraverso una
cornice”… e sono in grado di riprodurre la stessa foto che hanno visto sulla
rivista per illustrare l’articolo, e la ripetono all’infinito, senz’anima ne
passione, con la sola soddisfazione di aver svolto bene il compitino, con il
diaframma “più perfetto” per l’occasione. In effetti sono queste le occasioni
in cui ti viene voglia di smettere. In effetti ci sono state molte occasioni in
cui mi è venuta voglia di smettere, e tante cose che invece me la fanno
tornare, ma questo sarà argomento futuro. Parliamo invece di che diaframma ho
usato: non importa! Se sono riuscito ad isolare il soggetto (ricordate la
parola soggetto!) che diaframma ho usato non importa nulla. Al limite che
conta, è la terna ISO – tempo – diaframma, la cui permutazione accurata, a meno
di una opportunità compositiva che è la profondità di campo, da risultati assolutamente
analoghi. Della profondità di campo parleremo poi, vediamo però come funzionano
i tempi ed i diaframmi.
La pellicola una volta, ed il sensore adesso, hanno bisogno
per una corretta esposizione di una quantità di luce precisa, esattamente
quella un po’ più o un po’ meno ma non troppo. Tenendo la sensibilità iso
costante (come avessimo una pellicola in macchina) dobbiamo immaginare sensore
o pellicola come fossero un secchio da riempire d’acqua. La quantità giusta, un
po’ più o un po’ meno, la vediamo quando siamo ad un paio di centimetri dal
bordo. Il diaframma è come se fosse il rubinetto, un rubinetto speciale che
funziona a scatti, ad ognuno dei quali la quantità d’acqua raddoppia: 1,4 – 2 - 2,8
– 4 – 5,6 – 8 – 11 – 16 – 22 … sono i numeri che identificano l’apertura dei diaframmi
in progressione, ed ad ognuno di essi corrisponde il raddoppio della quantità
di luce che passa attraverso l’obbiettivo. Non entriamo nel merito del
significato di questi numeri, semplicemente ricordiamo che si tratta di un
rapporto per cui la quantità di luce che colpisce la pellicola a parità di
diaframma è la stessa con qualunque obbiettivo possiamo montare sulla nostra
macchina fotografica.
Ed il tempo che cos’è? Non voglio addentrarmi in aspetti
filosofici, ma fermarmi al significato in fotografia. Il tempo è “il tempo” che
l’otturatore rimane aperto per permettere il passaggio della luce, ovvero il
tempo in cui noi teniamo aperto il rubinetto. Anche il nostro orologio ha una
strana caratteristica, ci permette di tenere aperto solo per delle unità di
tempo predeterminate: ….1/8 – 1/16 – 1/30 – 1/60 – 1/125 – 1/250 ….e via
discorrendo il numero frazionario intende ad esempio un centoventicinquesimo di
secondo. Ma … Sorpresa! Ogni scatto il tempo raddoppia, e allora cosa ci viene
da pensare… che per riempire il secchio, se apriamo uno scatto in più il rubinetto
raddoppiando la portata d’acqua, mi servirà uno scatto in meno sul tempo che
sarà dimezzato.
Perché dicevo che il diaframma è indifferente, perché (dal
punto di vista dell’esposizione) scattare a 1/125 con f:8 è la stessa identica
cosa che scattare a 1/250 con f:5,6 o 1/60 con f:11!
Gli iso della pellicola corrispondono alla dimensione del
secchio, più sono alti e più il secchio è piccolo minore sarà la quantità d’acqua
che serve per riempirlo; la cosa incredibile è che anche il valore iso vanta
una sequenza per cui la capacità raddoppia (o dimezza) ogni step. In analogico
non è possibile cambiare gli iso a meno del cambio della pellicola, si può
eventualmente sovra o sottoesporre la pellicola; con il digitale possiamo
variare gli iso a nostro piacimento ad ogni scatto.
A questo punto occorre fare due precisazioni:
1- La
permutazione delle coppie tempo diaframma è indifferente solo per l’aspetto
dell’esposizione, ma la scelta di quale usare è importante per il risultato
finale
2- Il
soggetto! Non dimenticate mai di mettere in evidenza il soggetto che
spessissimo nelle fotografie manca, anche se è attraverso una cornice o
riflesso o nell’ora blu il soggetto della foto deve essere evidente per darle
un senso. Uno che a suo tempo ha fatto delle foto, che si chiamava Ansel Adams
diceva:
“le fotografie sono come le barzellette… se le dovete spiegare vuol dire che
sono venute male”
Ma chi è che ci dice che “coppia tempo - diaframma” usare? la
luminosità della scena ci è indicata dall’esposimetro della macchina
fotografica, dove puntarlo e cosa fare sta a noi e ne parleremo in futuro!
martedì 8 novembre 2011
4 - "...la mia macchina fa delle foto bellissime" :p
Abbiamo per ora parlato di numeri, di aspetti un po’
asettici ma necessari se non vogliamo essere esclusi da tutto il processo di
formazione dell’immagine che avviene dal momento dello scatto fino alla stampa.
Ma tutti questi numeri (o grani d’argento se siamo ancora analogici), da dove
saltano fuori? Ovviamente dalla macchina fotografica, che a differenza di
quanto ci impone il mercato è un apparecchio molto più malleabile e
controllabile di quanto si possa credere.
Parlerò solo di reflex, perché per le compatte c’è poco da
dire, ci escludono quasi totalmente dal processo di scatto, identificando anche
se il soggetto ha gli occhi chiusi o se ride, quindi evitiamo!
Checché se ne dica, le “grandi” macchine del passato, quelle
entrate nella storia tipo la Nikon f3, avevano in particolare un solo pregio:
erano indistruttibili. L’esposimetro rispetto alle attuali era poca cosa,
motore, flash, e tanti ammennicoli ora inclusi erano esterni. Però funzionavano
sempre, l’otturatore a tendina si poteva rompere solo con un cacciavite
(infilzandolo per intenderci), lo specchio si poteva pulire con fazzoletto e
sputo, se cadeva si cambiava il fondello in metallo, o anche no, tanto andava
uguale. C’era qualche minima differenza tra un modello e l’altro per aspetti
spesso misconosciuti ai più… vetro smerigliato intercambiabile, sincro flash
più veloce, a volte maggior precisione dell’otturatore, ma tutto qua. La foto
la faceva (e continua tutt’ora a farla)
l’obbiettivo. Nella reflex analogica, fino a 15 anni fa, quando lo specchio si
alzava, in sequenza avevamo: il soggetto, la lente e la pellicola. Ora c’è una
differenza in più tra una macchina e l’altra: il sensore, il quale si arroga la
qualità che prima era determinata dalla pellicola, per cui il corpo macchina
assume più importanza nel processo produttivo dell’immagine proprio in base
alle dimensioni, qualità e numero di pixel del sensore stesso.
Però se andiamo a vedere nel dettaglio, a parte alcuni corpi
professionali, il sensore è lo stesso (e l’elettronica pure) in vari modelli
della stessa marca con prezzi che variano anche del 2-300%! E allora se non è
il sensore a fare il prezzo che cos’è? In effetti, la necessità di rendere il
mercato aperto e vendere i corpi macchina con la frequenza con cui prima si
vendeva la pellicola, ha fatto si che sul mercato si riversassero oltre agli oggetti
di valore, altri la cui qualità meccanica tende lentamente al minimo,
mantenendo come uno specchietto per le allodole i megapixel e i gadget
elettronici. Detto fatto ci troviamo a guardare dentro mirini mostruosamente
bui, con la qualità di spioncini da porta, con baionette in plastica, corpi
ergonomicamente non gestibili, con la pretesa di durare il poco tempo dell’uscita
sul mercato del prossimo sensore da 5 megapixel in più che ci aiuterà a
stampare foto 100x70! Naturalmente nella corsa al megapixel si cambia il corpo
macchina e si spende pochissimo per l’obbiettivo, che comunque rimane l’unica
cosa a fare veramente la differenza sul risultato finale… lenti in resina,
baionette in plastica apertura massima a f 5,6 utile a fotografare a ferragosto
in spiaggia.
Poi qualcuno provando la mia macchina, guarda nel mirino,
ritrae la faccia con espressione sbalordita e mi fissa con l’espressione
estasiata di colui che per la prima volta vede attraverso un pentaprisma (ora
usa il pentaspecchio) con un vetro smerigliato serio su una dimensione
fullformat, dove comporre un’immagine regala quel piacere che fa della
fotografia un’emozione personale molto diversa dallo scattare per dovere di
turismo! Attenzione che non sono i suddetti aspetti a cambiare la qualità della fotografia finale! (tecnicamente parlando intendo)
- su una macchina mezzo formato (quasi la totalità) 8 /10 megapixel superano le necessità della quasi totalità degli utenti
- meglio un usato con caratteristiche più professionali che una ciofeca nuova con 24 megapixel
- una macchina più pesante sta più ferma e si tiene meglio
- se proprio abbiamo poco da spendere meglio investire nelle ottiche che contano più della macchina e perdono molto meno valore
- per quanto ho verificato, fino a certi livelli la marca della macchina va solo a simpatia personale, anzi direi che conta più il servizio di garanzia e assistenza che il resto.
Per
il resto, e sarà il prossimo argomento, la fotografia è da sempre fatta da due
(2 - due!) soli parametri: tempo e diaframma! Capire come si usano, che poi non
è cosa così difficile, ci permette di riprodurre qualsiasi cosa sia fisicamente
fotografabile, senza bisogno di altro. La vera insidia, nascosta in questa
affermazione, è il “fisicamente fotografabile” perché certe situazioni non sono
materialmente riproducibili se non con accorgimenti tecnici ed attrezzature
avanzate e, permettetemi di aggiungere, conoscenze molto approfondite!
domenica 6 novembre 2011
3 - Monitor e stampa
Affrontiamo il sommo problema: perché a monitor vedo una
cosa e quando vado a stampare la foto è completamente diversa?
Per tutta una serie di motivi difficili da risolvere se non
dedicando una postazione alla sola preparazione di immagini.
Primo fra questi e assolutamente soggettivo è la taratura
del monitor, luminosità, contrasto, gamma, temperatura di colore in gradi
kelvin e tutti i parametri personalizzabili, che vengono generalmente impostati
per appagare le nostre personali preferenze, non hanno nessun riscontro in
stampa! Anche l’angolo visuale e l’illuminazione diurna o artificiale possono variare
la percezione dell’immagine a monitor.
Le stampanti, a seconda della tecnologia hanno comunque rese
diverse che dovrebbero essere oggetto di stampe test da confrontare prima di
elaborare una fotografia.
C’è inoltre un fattore tecnologico fondamentale nella
riproduzione: il monitor lavora in sintesi additiva, la stampante in sintesi
sottrattiva, mescolando colori di base differenti. Immagino che detto questo ne
sappiate quanto prima! Ma cos’è che sommiamo o sottraiamo? Semplice… la luce!
Semplificando moltissimo, senza entrare nella definizione
dei gamut dei vari metodi di colore (immagino che questa frase risulti per i
più illuminante!) occorre pensare che i colori a monitor sono sintetizzati
dalla somma di tre valori cromatici fondamentali (RGB – rosso verde blu) che
emessi alla massima intensità producono sovrapponendosi luce bianca brillante,
ed al minimo il nero. Funzionano così anche i videoproiettori e tutti i
visualizzatori con proiezione attiva.
La stampante utilizza una sintesi inversa, ovvero, partendo
dal bianco del foglio, che rappresenta la massima luminosità possibile per la
nostra immagine, sottrae luce sovrapponendo micro gocce di inchiostro di tre
colori fondamentali diversi da quelli precedentemente citati (CMYK - ciano
magenta giallo) e il K cos’è? Una necessità tecnica.. è l’inchiostro nero necessario
in quanto la somma dei tre precedenti non è in grado di fornire un bel nero
pieno. Da qui la definizione di “stampa in quadricromia”
Il software di fotoritocco normalmente lavora in RGB, anche
se poi l’algoritmo interno di sintesi è il Cie L*a*b che è un ulteriore metodo di colore basato sulla percezione ed
indipendente dal media di rappresentazione.
Il metodo cmyk è simulato e nei
software seri si può anche simulare la tonalità del bianco della carta di
supporto, per avere un’idea più vicina di quello che avverrà in stampa.
Ma alla fine di tutto questo discorso, cosa possiamo fare
per veder stampate le nostre fotografie come appaiono a monitor?
Principalmente si dovrebbe calibrare il monitor, con
appositi programmi (Adobe fornisce con Photoshop “Adobe Gamma”, ma il più delle
volte lo schermo apparirà poco contrastato e scuro (come le foto che avremmo
portato a stampare), poi a fine elaborazione cambiare spazio colore in cmyk,
simulando anche la carta, e fare qualche prova con la nostra stampante,
tendenzialmente è meglio mandare in stampa immagini un po’ più chiare di quello
che ci piacerebbe perché poi in stampa i colori si “spengono” un po’ a meno che
non ci rivolgiamo ad un laboratorio professionale.
Quando saremo più bravi, effettueremo il controllo “numerico”
del colore e delle luminanze con il “campionatore colore” di Photoshop verificando
l’assenza di dominanti ed i corretti valori di esposizione, indifferentemente a
ciò che vedremo rappresentato sullo schermo.
sabato 5 novembre 2011
2 - La dimensione dell'immagine
E’ l’avvento del digitale, che dopo la saturazione mi
riavvicina alla fotografia: la tecnica è quasi la stessa, almeno fino ai raw
file, quello che si faceva in camera oscura si fa con il software (parlo della
correzione tonale e del bilanciamento immagine, il fotoritocco è un’altra
storia!). nuovi mostri si affacciano all’orizzonte e la lunga esperienza sia in
fotografia che in informatica mi rende bersaglio più o meno della stesse
domande, da cui l’idea del blog!
Prima avevamo una pellicola 24x36 mm… si sapeva che una
fotografia formato 30x40 cm era prossima al limite qualitativo della
riproduzione, a meno che l’immagine non fosse guardata da lontano, sennò
occorreva passare a formati di negativo più grandi ed impegnativi, fino all’uso
di lastre singole su banco ottico. Ora, con una compatta da 5 megapixel si
pretende di stampare in 100x70 perchè “sul computer si vede bene!”.
Sarà il mio primo immane sforzo: fare chiarezza sui formati!
L’immagine sul computer è formata da una griglia di punti
luminosi per certi aspetti adimensionali: cominciamo male. Perché adimensionali?
Perché sono “punti”, entità, che si manifestano in modo differente a seconda
del media utilizzato per visualizzarli, che sia il monitor o la stampa. Ma non
finisce qua: ci sono grandi differenze tra un monitor e l’altro e tra una
stampante e l’altra e non bisogna dimenticare che a parte le dimensioni, la
sintesi cromatica tra monitor e stampante è totalmente diversa.
Detto questo partiamo con un primo assioma: L’immagine digitale si misura in punti,
sul monitor sono pixels, nella stampante dots, la dimensione in punti dell’immagine
è sempre la stessa, ma la dimensione a monitor e su carta dipende dalla
dimensione dei pixels o dei dots e di conseguenza da quanti il monitor o la
stampante riescono a metterne su un’unità di superficie. Quest’ultima, tanto
per complicare le cose, è espressa in pollici e si chiama PPI su monitor (pixel
per pollice che generalmente sono 72) o DPI (dots per inch) sulla stampante,
ricordando che un pollice è 2,54 cm!
Facciamo un esempio, immaginiamo di scaricare un’immagine
dalla rete per inserirla in un documento, a monitor è perfetta, poi in stampa è
inguardabile perché?
L’immagine di partenza sarà probabilmente 640x480 punti
quindi, il lato lungo sul monitor del nostro computer sarà circa (dipende dalla
dimensione fisica del pixel): (480/72)*2,54=17 cm circa (provare per credere!)
una dimensione niente male! Ora andiamo a stamparla: una di qualità accettabile
se pur bassa deve essere effettuata a 300 DPI quindi quello che è il nostro
lato lungo sarà: (480/300)*2,54= 4 cm circa. Se aumentiamo la dimensione dell’immagine
stampata, riducendo il numero dei dpi, otterremo un’immagine scadente e
sgranata, lo stesso risultato, forse poco meglio a seconda dell’algoritmo
utilizzato l’otterremmo ingrandendo il file originale.
Ragionando al contrario, per avere un’immagine decorosa di
dimensioni 10x15 occorre fare: 15/2,54*300=~1800 pixel (1771 per l’esattezza) l’altro
lato viene per conseguenza!
Parlando delle attuali reflex digitali, le dimensioni in
pixel sono:
6 megapixel - dimensione immagine di circa 3000 x 2000
8 megapixel - dimensione immagine di circa 3504 x 2336
10 megapixel - dimensione immagine di circa 3872 x 2592
12 megapixel - dimensione immagine di circa 4288 x 2848
Occorre ricordare che il sensore delle compatte ha un
rapporto dimensionale 4/3 mentre nelle reflex è 3/2.
Una volta meditato su questi aspetti sarà necessario
affrontare la sintesi cromatica ed i metodi di colore.
venerdì 4 novembre 2011
1 - Parliamo di fotografia
Come ormai da tempo…. Sono qui a parlare di fotografia. Ma non vorrei continuare a dire cose su tempi e diaframmi, o meglio, le dirò solo una volta perché ricordare aiuta, così come dirò qualcosa sul digitale, sulle misure delle stampe e sulla loro definizione, perché a volte non sono cose semplicissime. Però vorrei arrivare un giorno a dire qualcosa sulla fotografia non tecnica. Ho acquistato la prima reflex, una Pentax, nel 1983, la passione ha cominciato a crescere, ma non ero soddisfatto. Sicuramente era colpa della reflex! Oddio il dubbio Canon, Nikon, Yashica (montava ottiche Zeiss!!!)…vabbè al momento mi è sembrato meglio prenderne una! Nikon f301! Poi 601, 801, FM, FM2 ma non è che migliorasse granchè! Allora il problema doveva essere nelle ottiche. Qualcosa avevo gia ma non eccellenti, qualche universale perché comunque le focali vanno coperte tutte! 24 – 35-70 2,8. 70-200 2,8 ma niente! Tenendo conto che nel frattempo passavano gli anni e diventavo più esigente in termini qualitativi, comunque c’era ancora qualcosa che non andava. Ho cominciato a stampare! Camera oscura, acquisto delle bibbie necessarie: Ansel Adams.. Fotoricettario di Ghedina e tutto un mondo nuovo da esplorare, combinazioni chimiche, attrezzature e tecniche sempre più sofisticate… La camera oscura cambia il modo di vedere le cose la percezione aumenta smisuratamente, le regole compositive possono essere tastate, gestite esplorate nel buio e nella solitudine con la massima concentrazione. Purtroppo si vedono meglio anche i difetti! Il problema sicuramente era il formato 24x36 (la pellicola per intenderci)! A questo punto diventano chiare due cose: la prima è che spesso divento maniaco, la seconda è che occorre tempo e denaro! Si risparmia per la Zenza Bronica 4,5X6, poi la Yashica mat 124 6x6 per poi approdare su una comoda e leggera pentax 67, il cui scatto dava un rinculo tipo quelli di un’arma tale era la dimensione dello specchio! Altri acidi… altre tecniche… il dettaglio assumeva aspetti quasi mistici! Ma le foto? C’è ancora qualcosa che non mi convince. Si tecnicamente ottime, ma poi? Devolution! Si torna al 24x36 più gestibile. Mi sono accorto che degli zoom usavo solo le focali estreme e certi quasi mai; personalmente non ho una grande predisposizione per il tele, preferisco i grandangoli, ma è un fatto personale. Il 70-200 spesso stava rinchiuso per mesi, mentre il 35-70 era consumato. Poi per le mie necessità legate alla stampa usavo la reflex in manuale, allora perché tenere un’elettronica? Qua arrivano due corpi: FM e FM2, con sole ottiche fisse: 24, 35, 85! Non mi serviva altro. Un periodo quasi felice, tanti ritratti, le prime soddisfazioni di pubblico, anche se mi accorgevo che c’era ancora qualcosa che non andava. E’ qua che è giunta un’illuminazione che mi ha portato ad abbandonare la fotografia per un certo periodo.
Tre eventi sostanziali:
1- Sicof “Mostra Grande” 5000 foto esposte di cui 1500 donne ignude suddivise in ulteriori categorie riassumibili in a) composizione campestre con tacchi a spillo in vernice rossa e ombrellino rosso; b) intimo al limite del grottesco, c) contorsionismo e una ventina di accettabili B/N
2- 500 circa vecchi rugosi ad alto contrasto in bianco e nero
3- 1500 paesaggi toscani a composizione chiusa (Fontana era al tempo un must)
4- 1000 gatti infilati in ogni dove
5- 500 varie ed eventuali di macro, cani, bambini e grafismi.
La domanda era: questo è il traguardo? E sottotitolo “fotografiamo solo le cose che abbiamo già visto!” ricordate questo passaggio!
Poi vedo un servizio, credo su “Progresso Fotografico” dove Ugo Mulas provava una compatta usa e getta con lente in plastica. Guardando le fotografie si sentiva un terribile nodo allo stomaco per la sensazione e l’emozione che traspariva. Allora tutte queste prove tecniche sulla stampa di settore per la risolvenza in linee per millimetro a che cosa servono? Perché una foto a 5 l/m è struggente e la mia a 120 non dice nulla. Il delirio di apprendere la tecnica allontana dal contenuto! (e ricordate anche questo)
Infine il colpo di grazia. La foto in cui Rodchenko ritrae sua madre, un primissimo piano… il fatto è soggettivo ma per me l’emozione è stato un tuffo al cuore.
Tutto quello che si impara serve si, ma solo a permetterti di rendere cio che “senti”. L’errore e far si che la tecnica diventi il soggetto come spesso succede.
L’arte è comunicazione, il mezzo è la tecnica, lo scopo è la trasmissione di un’emozione, se uno di questi elementi non è soddisfatto potremmo solo essere dei bravi artigiani (senza nulla togliere), dei riproduttori, ora di oggetti, ora di paesaggi ora di volti (anche una fototessera è un ritratto). Qua occorre fare una sosta e poi ripartire da zero.
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