mercoledì 6 novembre 2013

Autoritratto


Hippolyte Bayard - Noyé - il primo autoritratto "costruito" nella storia della fotografia

E' un po’di tempo che vorrei affrontare il tema dell’autoritratto, ma ammetto di essere confuso a riguardo. O meglio non riesco a scriverne  perché è “polimorfo”; non riesco ad individuare un filo conduttore che ne circoscriva l’essenza in un pensiero riproducibile.
Forse l’imbarazzo nasce dal fatto che i due estremi del polimorfismo conducono su due strade talmente distinte da essere di fatto due fenomeni diversi. Non è una mia interpretazione ma ne è piena la letteratura: l’autoritratto può esporre dalla parte più intima e vera del sé alla più totale finzione. La stessa motivazione che induce alla finzione è duplice: può trattarsi della necessità di esporre un qualcosa del nostro io che non siamo capaci di esprimere, cioè quello che vorremmo essere e comunque una parte che emerge dal profondo, come pure un adeguamento ad una immagine standardizzata, cioè quello che saremmo se facessimo parte di un mondo patinato che di fatto non ci appartiene ed al quale non apparteniamo. Ma perché autoritratto allora? Credo che i motivi principali siano tre:
-Il primo è l’intimità con la quale qualcuno riesce ad esprimersi di fronte a se stesso… “ho qualcosa da dire, un pensiero, un’emozione e non può essere un altro ad esprimersi per me”. E’ l’autoritratto che generalmente non è costruito, è essenziale e crudo, una confessione scomoda esposta al pubblico in maniera velata, che non tutti sapranno cogliere se non quelli che meritano di conoscere, che riescono a godere del dono dell’empatia. Sono gli autoritratti che preferisco; a volte seguendo qualcuno sui social network si riescono a cogliere sfumature e stati d’animo che mi fanno pensare di conoscere profondamente una  persona che talvolta non ho neanche mai incontrato.
-Il secondo è la presunzione che nessuno possa riprenderci e conoscerci altrettanto bene come noi stessi. Figlie di questo stimolo sono immagini costruite, nella scenografia, nel trucco nelle luci e nella posa; poco spontanee, ma sicuramente ben realizzate. Rientrano tra questi, anche gli scatti materialmente realizzati da altri dei quali (altri) però non emerge nulla se non l’atto meccanico dell’inquadratura e dello scatto. In fondo anche il regista di un film non effettua nella maggior parte dei casi le riprese, però è comunque sua l’interpretazione della sceneggiatura. La sensazione, ma è proprio una personale sensazione, è che mentre nel primo caso il soggetto/fotografo stia cercando dentro di se qualcosa che deve far uscire per far chiarezza sulla propria esistenza, in questo, ed è per questo che ho parlato di presunzione, l’idea che si vuol dare di se sia un messaggio chiaro e preciso.
-Rimane la “vergogna”…ma di chi? Anche in questo caso i soggetti si spogliano, ma invece che delle maschere, proprio dei vestiti. Foto brutalmente riprese allo specchio col volto nascosto dal flash del cellulare, rese pubbliche, con risultati talvolta tecnicamente agghiaccianti, sui social network, dove, se uscite dal profilo personale perdono completamente di identità perdendosi nella rete, come messaggi dentro bottiglie. In questo caso un fotografo migliorerebbe la situazione a livello “individuale”, mentre è interessante il fenomeno a livello “sociale”. Da chiedersi è il perché di questo, e non come domanda retorica… è incredibile il terrore che a volte le persone esprimono davanti ad un fotografo anche occasionale, e poi pubblicano una becera foto senza veli su un social!

Il discorso da affrontarsi esula dalle mie competenze, e anche la categorizzazione esposta è tagliata con l’accetta. Ogni foto, ogni fotografo ed ogni soggetto è un mondo a se e probabilmente ogni osservatore coglie particolari diversi generando una molteplicità di permutazioni semplici da rendere infinito l’aspetto interpretativo. Per questo sono convinto di essermi imbarcato in un’impresa impossibile (quella di racchiudere l’autoritratto in un ambito intellegibile), resta però il fatto che vorrei tanto essere dietro la macchina a scattare tutte quelle anime descritte al primo punto. 


domenica 23 dicembre 2012

Ritratto 2 e altri deliri


"La foto-ritratto è un campo chiuso di forze. Quattro immaginari vi s’incontrano, vi si affrontano, vi si deformano. Davanti all'obbiettivo  io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede io sia, e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte. In altre parole, azione bizzarra: io non smetto di imitarmi, ed è per questo che ogniqualvolta mi lascio fotografare, io sono immancabilmente sfiorato da una sensazione d’inautenticità, talora d’impostura. Immaginariamente, la Fotografia rappresenta quel particolarissimo momento in cui, a dire il vero, non sono né un oggetto né un soggetto, ma piuttosto un soggetto che diventa oggetto: in quel momento io vivo una micro-esperienza della morte: io divento veramente spettro."

Il testo che precede è un brano tratto integralmente da "la Camera chiara" di Roland Barthes, un saggio del 1980,scritto e pubblicato poco prima della morte dell'autore. I contenuti possono apparire in certi casi di difficile lettura e non facile interpretazione, come ad esempio l'accenno alla micro-esperienza della morte prima riportata, che non è riferita alla persona (soggetto) ma all'immagine in quanto "imbalsamazione" dello stesso che da soggetto diventa oggetto; la stessa persona ritratta "perde" il controllo della propria immagine la quale da una parte diventa proprietà artistica del fotografo (per legge!) e dall'altra verrà vista ed interpretata con occhi e sentimenti diversi dal pubblico sul quale non si avrà più possibilità di controllo e di replica.

Però l'importanza di questo testo, sta nell'analisi quasi autobiografica del rapporto con la fotografia. Il riconoscimento che all'intero di alcune immagini, qualcosa tocca le corde delle nostre emozioni senza un motivo apparente, ma che attiene alla sfera emozionale di ognuno di noi. Barthes, semiologo, intraprende un viaggio attraverso le immagini che nel corso della sua vita gli hanno procurato particolari emozioni per capire il perché questo avvenisse solo per alcune e non per altre e magari apparentemente meno pretestuose di altre, anche contenute all'interno del medesimo reportage.

Le conclusioni non sono più importanti del percorso effettuato per raggiungerle. Molte delle considerazioni contenute nel testo hanno contribuito a modificare nel tempo il mio modo di vedere (in senso letterale) e di fotografare le cose, e mi hanno spinto a cercare di dare un senso al lavoro che facevo e faccio, il più delle volte portandomi a non fotografare per nulla, piuttosto che fotografare il nulla.

Quello che spesso invece succede alla "fotografia" che perpetua modelli ed immagini sempre uguali e prive in se dell'emozione di chi scatta è ben espresso in "Rumore Bianco"(1985) di Don De Lillo; queste sono le considerazioni di fronte ai turisti che fotografano tutti in fila un monumento:
"trovarsi qui è una sorta di resa spirituale. Vediamo solamente quello che vedono gli altri. Le migliaia di persone che sono state qui in passato, quelle che verranno  in futuro. Abbiamo acconsentito a partecipare ad una percezione collettiva. Ciò da letteralmente colore alla nostra visione. Un'esperienza religiosa, in un certo senso, come ogni forma di turismo! -seguì un ulteriore silenzio- Fotografano il fotografare!"
 La mia interpretazione di questo passaggio è assolutamente tendenziosa e funzionale a ribadire ciò che dico dalle prime pagine di questo blog, anche se a volte in maniera confusa,senza un filo logico preciso... Siamo condizionati da un sovraccarico di immagini, le quali da una parte formano la nostra cultura, dall'altro sono talmente tante, che le prendiamo senza senso critico, e non sapendo più distinguere ci appoggiamo al sentimento comune, fotografando ciò che hanno già fatto o ci propongono altri i quali hanno provato l'esperienza del consenso positivo su qualche soggetto.
Sono anni che vedo foto di donne in lingerie o anche nude in cantieri edili o edifici fatiscenti.... faccio l'architetto, frequento quotidianamente cantieri ed edifici fatiscenti, ma di quell'immagine che comunemente passa, non ho mai trovato traccia nella realtà quotidiana. Speriamo che la crisi dell'edilizia non metta in crisi anche l'immaginario erotico collettivo!





mercoledì 19 dicembre 2012

La magia del ritratto


E nel ritratto dov'è l'arte? non si farebbe meglio a parlare di artigianato? comunque il sapiente posizionamento delle luci, i consigli sulla posa, l'individuazione dell'angolo migliore per valorizzare il volto sono tutte procedure standardizzabili e ripetibili, quindi artigianali per definizione, con qualche licenza interpretativa da parte del fotografo.
E il  make up? il più delle volte il risultato è sbalorditivo... quindi di chi è il merito del risultato? Ma poi lo stesso soggetto fotografato da diversi fotografi come in un workshop o modelsharing, dà risultati a volte opposti! è quindi? dopo il make up si compie un altro atto creativo che per altro è indipendente dalla modella che nel caso citato è sempre la stessa. Certo dobbiamo parlare di fotografi con capacità tecniche paragonabili, ma di diversa personalità.
Probabilmente osserveremo opere compiutamente artistiche ed indifferentemente apprezzabili, ma comunque diverse.
Premettendo che il ritratto è in assoluto il mio genere preferito, vorrei mettere in campo la mia semplicistica e limitata visione della cosa. Tornando ancora una volta ai post precedenti. Il fotografo mette su carta la propria emozione, quella che prova sul set o al momento dello scatto! resta da capire come la cosa si esplicita nel ritratto, dove spesso la composizione è forzata da canoni poco alterabili.
Credo che questa sia una cosa impossibile da spiegare. Bisogna provarla sulla propria pelle ed è un'emozione forte che nasce all'improvviso, a volte non arriva, ma quando si impara ad evocarla non si può smettere di "fare i ritratti". Nasce da una sorta di empatia con il soggetto con il quale si comincia a comunicare con il pensiero; il fotografo scruta attraverso l'obbiettivo in una spietata analisi di ogni minima contrazione muscolare che può ad ogni istante generare un'espressione fantastica... il soggetto si muove come ipnotizzato dal vetro frontale e dai lampi dei flash. La tensione sale e a volte si arriva a fare 7, 8 scatti consecutivi fantastici dove il risultato è la sintesi della condizione emozionale di entrambi. Poi ci si ferma, un controllo agli scatti (ora che si può), due parole cambio scena e si ricomincia con un'altra serie. Ad un certo punto sopravviene quasi una spossatezza emotiva. è il momento di smettere ma l'adrenalina rimarrà alta per qualche ora , fino alla voglia di trovare un altro soggetto, un po' come una droga!

Peter Lindberg (da Facebook fotograficamente)

Questo è abbastanza personale... non tutti manifestano gli stessi interessi, alcuni mettono la propria emozione nella macro, nei fiori e negli insetti, altri nel paesaggio; il risultato è sempre lo stesso, l'archiviazione di un'emozione. Io amo i ritratti, non sempre trovo i soggetti, a volte non scatta la scintilla... ma se sono trent'anni che fotografo è grazie a quello che mi hanno restituito quei pochi ritratti, concordati o rubati, che  ho portato a casa nella mia esperienza.
Parlando con alcune modelle un po' più esperte, si è convenuto che la sensazione è la stessa anche dall'altra parte; che esiste una sorta di soggezione emotiva provocata dall'obbiettivo, che una volta che si è presa la dovuta confidenza diventa irrinunciabile. Ogni lavoro è una sfida con se stessi, nasce un'ansia da prestazione che come in un videogioco, rende questa "pratica" assolutamente addictive!
che tutto questo sia vero in assoluto oppure no, poco importa! finché succede a me è più che sufficiente a farmene scrivere. Un consiglio.... provate, anche a farvi fotografare perchè anche così si impara!

Da notare, nel ritratto sopra, che l'intensità è estrema eppure ci sono quasi tutti gli errori da non fare (mosso, sfocato luci, ecc ecc) meditate quindi sul ruolo della tecnica!

venerdì 21 settembre 2012

sul perché dell'espressione artistica

Prima di affrontare il tema delle dominanti cromatiche e della temperature di colore, volevo dare spazio ad una riflessione che mi assilla da qualche giorno, anche in virtù di ciò che ho scritto relativamente all'ispirazione ed ai contenuti della fotografia. La questione nasce dal motivo stesso per cui scrivo queste pagine, ovvero perché le scrivo? Credo che sia per lo stesso motivo per cui fotografo ed espongo le mie fotografie, sia su Deviantart che su Fotocommunity oltre altri generici portali, cioè, di fatto, esibizionismo. In senso buono... potrei anche a spingermi a definirla "necessità di performance artistica", confermando involontariamente l'affermazione che l'arte è prima di tutto comunicazione ed espressione di un'interiorità che a volte si sente il bisogno di esternare. Non è detto che ci si riesca, anzi, come ho già sostenuto i risultati sono spesso di poco conto, ma questo non vuol dire che non dobbiamo provarci; generalmente qualsiasi espressione "artistica", a parte forse l'architettura, possiede la caratteristica di essere discreta, di non imporre la propria presenza, di non ostentare se stessa se non a chi ha voglia di accoglierla. Nessuno ci obbliga a leggere un libro ne tantomeno un blog, ne a vedere un film ne una foto. addirittura, se per caso affrontiamo la visione di un film che non ci piace, o di un libro non adatto al nostro momento, abbiamo piena libertà di andarcene o smettere di leggere. Si potrebbe quindi affermare che l'oggetto dell'arte, ha più una valenza liberatoria per l'artista che per chi lo riceve, uno sfogo che forse nessuno ascolterà mai. 
Qui si apre un altro tema: il consenso. La necessità di dimostrare il nostro valore, che in fotografia è, specialmente agli inizi, di carattere tecnico, ci porta velocemente a snaturare il nostro sentire (o meglio "vedere") per accomodarci nella riproduzione di un qualcosa che appaghi non tanto noi, quanto il nostro pubblico. Niente di sbagliato, anzi... se ci viene commissionato qualcosa, un ritratto, un matrimonio, è il committente/soggetto che deve essere soddisfatto, cosa che fino ad un certo punto rende lecito anche il ritocco "pesante"; ma se vogliamo esprimere noi stessi è giusto inseguire la moda? Realizzare immagini omologate per accumulare i "mi piace"? dove siamo "noi" in una simile operazione? Certo è tutto più facile, spesso lo faccio anch'io, ma poi mi deprimo, e perdo stimolo, non fotografo per mesi fino a che qualcosa non riaccende quella scintilla che latente mi porto dentro da ormai tanti anni. Vorrei arrivare a dire che non è necessario fare 150 foto ogni domenica e 500 vacanza... oppure fotografare qualsiasi manifestazione folcloristica o evento paesano che ci venga in mente, a meno che qualcosa non vi solletichi la bocca dello stomaco. Riprendiamoci, se non diversamente obbligati, la dimensione personale della performance senza essere schiavi dei temi vuoti imposti dalle riviste di settore e dei tecnicismi inutili proposti dai produttori di fotocamere a meno che questi non siano la nostra vera ispirazione!



mercoledì 19 settembre 2012

Regole di composizione

A questo punto, dovremmo essere maturi per comprendere che, data per scontata la tecnica, la quale a parità di intelletto ed esperienza viene raggiunta e padroneggiata da tutti nella medesima maniera, ciò che differenzia l'opera di un fotografo da un altro è la capacità di "vedere" e di "comporre" l'immagine. Purtroppo vedere è soggettivo, dipende dalla nostra cultura, dalla personale sensibilità, dall'esperienza del vissuto, dalla capacità di emozionarsi... nessuno lo può insegnare. La capacità di vedere l'abbiamo a fasi alterne... è l'ispirazione, cioè quel particolare stato d'animo che ci consente di filtrare la realtà in modo da estrarne la componente emotiva. dopo di che c'è la capacità di raccontare! E' la capacità dialettica trasposta sull'immagine, la scelta delle parole, delle pause del tono della voce, del non dire proprio tutto ma lasciare alla immaginazione di chi ci ascolta,  mettere la propria personale emozione nell'immaginare la scenografia del racconto. Ma come si può fare questo con la fotografia? L'unica cosa che mi viene in mente, dopo tanti anni di prove, è la composizione, ovvero quell'innato senso del saper posizionare le varie componenti dell'immagine in modo da dare "equilibrio"... di guidare l'occhio di chi guarda attraverso la fotografia in modo che non si perda in un mare di insulsi particolari, ma seguendo un percorso trasmetta quell'emozione che noi abbiamo provato al momento dello scatto. Ci sono delle regole in tutto ciò? Certo, qualcuno le ha codificate... terzi medi, spirali, triangoli, contrasto cromatico ecc. ecc. ma è un po come leggere un libro sulle tecniche di seduzione, generalmente i risultati sono grotteschi. Certe regole servono, specialmente all'inizio per non ottenere immagini troppo banali, ad esempio abituarsi ad usare anche lo scatto in verticale, specie nei ritratti, e magari spostare ad un terzo del fotogramma la parte principale del soggetto... ricordiamo che un'immagine si legge prevalentemente la sinistra verso destra, mettiamo un po' di attenzione nella profondità di campo, impedendo al secondo piano di mascherare il soggetto! siamo già avanti... ma non basta. le nostre foto saranno migliori, ma salvo capacità innate, comunque banali. Non è un male assoluto! Quante volte vi è capitato per le mani un libro noioso o scontato e quante canzoni inascoltabili esistono al mondo! non tutti hanno qualcosa da dire in campo artistico e non per questo sono persone peggiori. Non è comunque il caso di perdersi d'animo! (almeno non per sempre!) Applicandosi, studiando, provando, si possono ottenere con fatica dei risultati simili a quelli che altri ottengono per benevolenza della natura. Non saremo artisti ma ottimi artigiani, e poi chissà che un giorno il nostro cuore non si apra regalandoci una memorabile collezione!
Quindi il compito a casa per preparare chi, come me, non ha avuto la fortuna di possedere la sensibilità dell'artista, è il seguente: prendete delle composizioni di oggetti o anche singoli oggetti e realizzate una serie di fotografie per ognuno di essi, cercando di fare una foto triste, una serena, una allegra, una malinconica ecc ecc ma dello stesso soggetto! Oppure prendete un oggetto... un frutto, qualcosa di vostro e fotografatelo in modo da sentirne la materia al tatto, o l'odore, oppure prendete una cosa triste e rendetela allegra. spostate l'oggetto nell'immagine: da destra a sinistra, in alto o in basso, illuminatelo di più o di meno provate in bianco e nero o a colori, o in macro.... tutto quello che si può fino alla noia! Imparate a gestire le emozioni nelle immagini, anche se non sono le vostre ma le avete prese da un elenco. Così di fronte a qualcosa che non vi dice niente (a meno che non siate artisti) potrete immaginare cosa proverebbe un artista e simulare le di lui/lei emozioni mettendole nello scatto! A riuscirci avrete fatto già un grande cammino!

Memento... immagine direi triste!


sabato 15 settembre 2012

Ancora il Soggetto

Una Citazione dal film "anonymous"... L'arte è politica, se non c'è politica allora è solo decorazione!
Questa affermazione è in parte condivisibile, o forse del tutto ma incompleta...
La mia riflessione viene dal fatto che per dare un senso alle mie azioni (fotografiche), ho formulato il pensiero che l'arte fosse  principalmente "comunicazione", estesa però alla sfera emozionale di chi racconta. Il fatto che un'immagine (relativamente al nostro caso) sia "politica" penso non sia un aspetto limitato al soggetto ripreso, ma all'interpretazione che a questo dà il fotografo. Fotografare un uomo al lavoro non significa creare un'immagine a sfondo sociale, ma lo è quando la fotografia è la trascrizione non del soggetto in quanto tale, ma dell'emozione che questo ci trasmette; in alternativa non è arte ma una attestazione del fatto che quell'uomo sta lavorando.
Questo sposta l'ago della bilancia nella valutazione dell'immagine da parte di terzi, ovvero, se l'interpretazione e l'emozione del fotografo non sono evidenti è il soggetto che assume importanza e l'immagine diventa l'archiviazione di un istante trascorso. 
Un esempio per comprendere meglio quello che comunque vi ricordo essere un mio personale pensiero, può essere il confronto tra un nudo, ad esempio di Mapplethorpe (http://www.mapplethorpe.org/portfolios/male-nudes/?i=5) e una foto da calendario, di quelle da autoricambi per intenderci... il soggetto è spesso il medesimo, ma in un caso si è attirati dal complessivo dell'immagine, dalla composizione dalle luci e dalle ombre, dalla provocazione espressa dal soggetto dove difficilmente si ravvede volgarità... nell'altro si va subito a vedere il "particolare", la foto nel complesso, se pur tecnicamente ben realizzata, non esiste: Se la modella è brutta, la foto non ha significato! Se proviamo a guardare le opere di  Jan Saudek possiamo renderci perfettamente conto della preponderante importanza del fotografo nei confronti del soggetto, o meglio, il soggetto "è" l'interpretazione di Saudek della realtà oggettiva che gli sta di fronte.
Per questo generalmente mi turbano i concorsi a tema... come si può scattare a comando? è più facile trovare in archivio una foto adatta al tema, perché e nata in un momento che il soggetto ci ha trasmesso qualcosa, sennò perché mai lo avremmo fotografato?
Ormai sono anni che mi propongo per ritrarre amici e conoscenti, sentendomi sempre opporre il rifiuto motivato dalla presunta imperfezione del momento, dall'età che non è più adeguata, dal fatto che "ah io vengo sempre male". Temiamo quell'imperfezione che nelle foto di Saudek è soggetto (ovviamente nelle sue foto assolutamente estremizzata). Il ritratto della persona comune, tornando al titolo, non è politically correct, ci mette presuntuosamente a confronto con un mondo patinato del quale non siamo all'altezza, il ritratto di famiglia o personale, come si faceva "una volta" e che potrebbe un giorno riportarci all'emozione del momento in cui lo abbiamo realizzato, non si può più fare; vuol dire che la grande opera politica e sociale realizzata da August Sander "Uomini del XX secolo", rimarrà unica e della nostra era rimarranno solo immagini di modelle filiformi, labbroni siliconati e  fronti botulate.

Compito a casa: cercare con google, che gentilmente ci ospita, e analizzare con cura ed emozione, tutte le foto di Mapplethorpe, Saudek e Sander.

domenica 19 agosto 2012

...invece il mio cellulare fa foto bellissime!

Infatti, ormai il più delle foto sono fatte con il telefono, con l'aggiunta automatica di texture antichizzanti, con una bella dominante calda o al più applicando un cross process che tutti usano senza neanche sapere cos'è, tanto lo fa il telefono. Però questo da una parte è confortante, se è vero che l'ignoto spaventa, cosa c'è di meglio che continuare a vedere le solite cose e ancora meglio noi stessi?!  #picoftheday et voilà! Ma c'è di meglio, o di peggio non so... il livello della percezione critica inesistente, si citano cose che non si conoscono, la tecnica è dimenticata, la composizione inutile. Le regole disattese da chi le conosce costituiscono un punto di rottura o un momento creativo, ma le regole non applicate perché non le si conoscono sono solo errori; e c'è di più... il primo che le disattende crea, il secondo copia e considerato che il tramite e meccanico, la copia non ha nulla di originale, ma è solo una banalità. Per fortuna il non sapere dei più, dell'esistenza dell'originale, dona alla copia il riflesso della gloria delle idee di un altro. E il pubblico apprezza. Fantastico! è come barare quando si fa il solitario o doparsi in uno sport di quelli che non ti fanno diventare ricco, vivendo il resto della propria vita sapendo che la nostra vita è un imbroglio.
Ho trovato, girando in rete, copie di qualsiasi cosa... ultimamente seguo un fotografo statunitense di cui apprezzo la semplicità delle composizioni, gli sfondi spesso digitali e la postproduzione... questo ha una firma abbastanza particolare che entra a far parte della composizione, ebbene, ho trovato anche la copia della firma! ovviamente su fotografie la cui matrice è identica alle sue!

Eppure, a volte, la soluzione a certi problemi è semplice, e non serve una texture a coprire i difetti! Ad esempio ci piacerebbe fotografare qualcuno senza deformarlo? Allora la regoletta dice:
per un primissimo piano (solo il faccione per intenderci) ci vuole come minimo una lunghezza focale di 105 o tanticchia in più, sennò il naso, per una odiosa regola matematica diventa molto più grande del resto della faccia! eh però non ci sta tutta la faccia nell'inquadratura  col 105!!! ebbene la soluzione c'è ed è alla portata di quasi tutti, a meno che non stiamo fotografandoci da soli con la faccia da bacio utilizzando il cellulare. basta fare due passi indietro, et voilà! M allora perché comprare uno zoom se poi mi tocca camminare? 
c'è anche un altro paio di cosette da sapere... se fotografiamo un soggetto che abbia sopravanzato l'età di 12/13 anni, è probabile che cominci ad esserci qualche segnetto sulla pelle... brufoletti, cicatrici (la varicella ahime!), qualche ruga... insomma, sarebbe meglio aprire bene il diaframma, mettendo a fuoco gli occhi, così tutta la fotografia apparirà più morbida, e già che ci siamo sovraesponiamo di uno stop rispetto a quello che ci dice l'esposimetro. Eh ma quante cose...! tre in tutto: lunghezza focale diaframma e sovraesposizione! così passiamo qualche ora in meno davanti a photoshop, e una volta capito cosa si deve fare possiamo anche trasgredire e/o creare, reimmergendoci nella massa, ma consapevolmente. Poter scegliere dà una grande soddisfazione e aumenta l'autostima!